Fausto Coppi. Un uomo solo, solo un uomo
In una gelida mattinata, piovosa e nebbiosa, che affliggeva oltre misura i moltissimi sportivi convenuti a Castellania, un paesino collinare in provincia di Alessandria, il 2 gennaio 2000, per assistere all’annuale messa in suffragio dei fratelli Coppi, Fausto e Serse, nel quarantesimo anniversario della prematura morte del primo, celebrata nella cappella eretta a fianco del mausoleo dedicato ai due corridori da memori ammiratori del campionissimo, col contributo de “La Gazzetta dello Sport”, nel piccolo museo che conserva le biciclette, i trofei, le maglie (anche quelle donate da Bartali, Moser, Gimondi, Bobet, Koblet, Hinault, Merckx, Lemond), e le storiche fotografie, venne collocata un’intera pagina di giornale, la terza del quotidiano “Il Lavoro” di Genova, che io avevo scritto il 2 gennaio 1985. Quindi nel venticinquesimo del fatale trapasso. Quella storica pagina, racchiusa tra due lastre di vetro, da tre anni ricorda perciò l’indimenticabile Fausto ai molti visitatori – che ancora salgono, in auto, pullman (gitanti o intere scolaresche accompagnate dagli insegnanti), provenienti da tutta Italia ma anche dall’estero, o addirittura in bicicletta, isolati o in gruppi, la ridente verde collina piemontese, lungo un tracciato indicato da molti cartelli, recanti la scritta “Le strade dei fratelli Coppi” – col suo titolo emblematico: appunto “Un uomo solo, solo un uomo”. In quella pagina intera del giornale genovese, in veste di cronista, avevo ricostruito venti anni di carriera, ma anche di vita del campionissimo, in certo qual modo giustapposti ai miei. Un ventennio esatto nel quale l’impegno personale, agonistico prima e professionale poi, aveva intersecato di continuo l’esistenza del mio idolo atletico ed eroe spirituale, dall’adolescenza alla maturità. Orbene, mi ero convinto, dopo quella grigia mattina invernale, dedicata ai ricordi, conclusasi a Carezzano con un pranzo offerto a tutti gli intervenuti, veterani del ciclismo, dal municipio di Castellania, di cui è sindaco Piero Coppi, cugino del campione, che l’affissione di quella pagina, scritta col cuore e con la passione, in quel contesto costituisse il giusto epilogo della mia lunga e intensa partecipazione alla vicenda esistenziale di Fausto Coppi. Ma ecco che, due anni dopo, i bizzarri casi del destino involontariamente mi richiamano invece in servizio. Proprio in occasione dei tradizionali raduni promossi dall’Associazione Azzurri d’Italia, conversando con alcuni ex compagni di agonismo, i comuni ricordi si sono ad un certo punto, e a più riprese, concentrati su una recente sequenza di presunti scoop giornalistici, aventi come oggetto proprio Fausto. Ha cominciato il quotidiano “Il Corriere dello Sport”, ai primi di gennaio 2002, a rivelare che il campionissimo non morì di malaria, come si era detto quaranta anni addietro, ma sarebbe stato avvelenato dalla misteriosa pozione preparata da uno stregone africano, nell’Alto Volta, nel dicembre del 1959, dopo una corsa ciclistica in circuito. L’omicidio avrebbe avuto lo scopo di vendicare la caduta di un concorrente locale, provocata intenzionalmente – figurarsi! – dal nostro fuoriclasse. Un mese dopo, in febbraio, il settimanale “Oggi” uscì nelle edicole smentendo la fantomatica tesi dell’assassinio, raccontando che il campionissimo morì in effetti per avvelenamento, non però provocato da altri. La causa vera fu l’ingestione, dovuta a pura curiosità, sempre nel corso del fatale safari, di una fetta di tubero di manioca. L’innocente trasgressione alimentare, insomma, data l’accertata velenosità della radice, qualora essa venga inghiottita cruda, sarebbe costata la vita al corridore. Ai primi di aprile, infine, il settimanale “Gente”, dedicando un ampio e documentato servizio al tragico suicidio di un giovanissimo, Marco Bellocchio, secondogenito di Marina Coppi – la figlia di Fausto che vive sempre a Novi Ligure – avvenuto il 17 marzo, ha rivelato l’esistenza accertata di una pretesa “maledizione di Coppi”. Una maledizione, un castigo soprannaturale, paragonabile a quello attribuito al faraone egiziano Tutankhamon, che dopo avere colpito in anni lontani il campione stesso, ancor prima il fratello Serse, e quindi altri componenti del suo nucleo familiare, starebbe ora minacciando ramificate devastazioni, fatte tutte risalire alla fatale relazione con Giulia Occhini, la famosa Dama Bianca che negli anni Cinquanta del secolo scorso strappò l’atleta alla famiglia. L’antico istinto professionale, quello del cronista che fiuta la notizia e la lavora, la sviluppa, a volte anche contro ogni logica, mi ha dunque rimesso in caccia. Non tanto per smontare le fantasie altrui – che ledono comunque la memoria di un grande campione, scomparso ormai da più di quaranta anni ma tuttora vivo nel cuore degli sportivi, e rattristano gli eredi, i superstiti della famiglia, turbandoli addirittura con le indagini delle Procure, e le richieste di profanazione di un sepolcro, per esumare la salma – quanto per difendere l’idolo di intere generazioni di sportivi, anche stranieri, da qualsiasi ombra che ne offuschi ingiustamente il limpido ricordo. Nella malattia e nella morte di Fausto Coppi, che per motivi professionali ho tra le altre cose vissuto purtroppo in prima persona, non v’è traccia di sospetti né di misteri di alcun tipo. L’assurdità apparente di alcune innegabili circostanze, che per l’appunto mi propongo di spiegare al momento giusto, è pienamente giustificabile, semplicemente entrando nella mentalità dei personaggi coinvolti a vario titolo nella sua vita e analizzando il comportamento dei vari attori, principali o comprimari che siano stati. Il proposito che ho formulato, insomma, quello di ricostruire il periodo più delicato e fatale della vita di Fausto, nel passaggio quindi dall’epoca esaltante dei trionfi e della gloria a quella del triste declino, del tramonto, fino al tragico epilogo a soli 40 anni, nel momento preciso quindi in cui si suol dire invece che in realtà cominci la vita, muoverà dal periodo in cui l’adolescente si afferma nelle prime gare e via via conquista il successo e la più vasta popolarità, per cedere poi alle tentazioni connesse con la fama e finire col bruciarsi le ali. Quelle del grande airone ravvisato dalla fantasia di Orio Vergani. Fino alle prime avvisaglie del fatale crespuscolo e della rapida, crudele fine. Sfebbrato dal tifo, uscito dal clima iperbolico che con gli sportivi contagiò ad un certo punto anche la stampa, cercherò di analizzare con rigore biografico ed equilibrio di giudizi retrospettivi le ultime vicende esistenziali del campionissimo, per arrivare a stilare infine una diagnosi onesta ed esatta, che conforti nel lettore la stesura dell’atto di morte definitivo più realistico. Tale dunque da porre la parola fine alle congetture, alle fantasticherie, al facile scandalismo, che purtroppo molto spesso si accompagnano in appendice alle biografie dei grandi personaggi della storia umana. Cosicché al tumulto degli osanna in vita e al clamore delle rivelazioni, più o meno attendibili, in morte, subentri alfine il silenzio. Il silenzio rispettoso che si addice ai sepolcri, anche e soprattutto nell’epica cimiteriale.
2005, br. pp. 224 con illustrazioni b/n.
5,79€
Dettagli del libro
Peso | 0,49 kg |
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Dimensioni | 14 × 21 cm |
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